Mattatore. Paolo Ruffini tiene tutti incollati alla sua conversazione brillante e alle poltrone della Sala Verde della Multimedia Valley, durante il workshop in programma nella quarta giornata del festival. Il regista, attore e produttore italiano si sottopone con irriverente ironia riflessiva e con dovizia di competenza al fuoco amico dei giffoner della sezione+18.
Mattatore. Paolo Ruffini tiene tutti incollati alla sua conversazione brillante e alle poltrone della Sala Verde della Multimedia Valley, durante il workshop in programma nella quarta giornata del festival. Il regista, attore e produttore italiano si sottopone con irriverente ironia riflessiva e con dovizia di competenza al fuoco amico dei giffoner della sezione+18. Le domande sono tante. Attraversano il mondo della celluloide con un moto di interrogazione a trecentosessanta gradi. Le sue risposte vanno sempre al punto. Punto per punto chiudendo il cerchio del ragionamento e aprendo nuovi fronti di confronto. Spettacolo nello spettacolo a #Giffoni53. “Sono a tutti gli effetti uno spettatore professionista di cinema” esordisce Ruffini. “Amo la dilatazione orizzontale dell’immagine perché consente di ammirarla perdendosi dentro. Oggi, complice alcune specifiche piattaforme social, ci stiamo abituando al taglio verticale che sottrae contenuti allo sguardo. Ma noi, tutti noi, giovani e adulti, dobbiamo continuare non solo a guardare ma anche a pensare e a sognare orizzontale”. Questo perché “ognuno di noi, pensateci bene, sogna in orizzontale. Perciò il cinema è un grande, meraviglioso sogno a occhi aperti”. Dal teatro alla radio, dal grande al piccolo schermo: Ruffini ha prestato la propria opera professionale a strumenti e linguaggi di comunicazione differenti. Sempre con riconosciuta gentilezza e delicatezza autoriale anche quando si è dedicato a tematiche sociali delicate, come ad esempio il bullismo nella pellicola Il Ragazzaccio presentata proprio a Giffoni lo scorso anno. “Non ho risposte eroiche per spiegarlo” chiarisce subito. “Mi muove semplicemente la curiosità. Sviluppo i temi senza fare il figo sul piano autoriale e senza mettere il coperchio sulla emotività. Mi piace fare ridere e piangere il pubblico. Lo ritengo un dovere”. Secondo il poliedrico artista classe 1978 il cinema, per dirla con Truffaut, è “una notizia che non finisce mai”. Come il teatro, d’altronde: “Non so se tra cento anni ci sarà ancora TikTok. So per certo che ci sarà il teatro, autentico metaverso della realtà”. Ruffini afferma di voler aggiungere “un po’ di fantasia” al cinema italiano perché “tende a preferire il già noto, la strada già battuta, il remake di un film straniero, alle idee originali. Non c’è voglia di sbagliare” taglia corto per poi ironizzare sulla mancanza di buone maniere nella società contemporanea: “Vorrei fare un film di fantascienza in cui le persone sono gentili. Resto sempre profondamente stupito quando qualcuno lo è senza conoscerti”. Dalla vita reale a quella sul set: “Il narcisismo può creare conflitti tra produttore e regista come tra quest’ultimo e gli attori” annota. “Bisogna avere la capacità di fare un passo laterale. È come in una storia d’amore: l’eccessiva proiezione egoica rischia di rovinarla”. Le riflessioni filosofiche si alternano ai giudizi tranchant. Soprattutto nel caso del politicamente corretto: ” Il cinema è arte e l’arte non è politicamente corretta. Se fosse così, oggi non potremmo ammirare e studiare i capolavaori di Pasolini, pellicole come Ultimo tango a Parigi e nemmeno i film di Fantozzi. Siamo alla follia. L’arte è libertà”. Il tempo passa e l’attenzione resta alta. Siamo ai titoli di coda. Al gran finale. Ruffini si alza in piedi e, un attimo prima di salutare i giurati stringendo mani e firmando autografi, dichiara amore eterno al festival: “Giffoni è gentilezza, sorrisi, abbracci. A chi soffre di ansia e di infelicità posso solo consigliare di venirci: in questo posto ti senti bene e ti torna la fiducia nel genere umano”.