Oggi pomeriggio in Sala Truffaut i juror della sezione Generator+13 hanno visto il film in concorso GUILT diretto dalla regista turca Ümran Safter. La storia ambientata in un paesino dell’Anatolia pone al centro della vicenda la vita due ragazzine, Reyhan e Sukran, alle prese con dei problemi legati alla loro cultura di appartenenza.
Oggi pomeriggio in Sala Truffaut i juror della sezione Generator+13 hanno visto il film in concorso GUILT diretto dalla regista turca Ümran Safter. La storia ambientata in un paesino dell’Anatolia pone al centro della vicenda la vita due ragazzine, Reyhan e Sukran, alle prese con dei problemi legati alla loro cultura di appartenenza. Mentre la prima cerca di ribellarsi a tutto quello che impone il patriarcato, colpevole di opprime la vita delle donne turche. La seconda ne segue i dettami, sebbene abbia commesso un peccato ancora più grave: aver fatto l’amore con un ragazzo partito per il militare e del quale teme di essere rimasta incinta.
Reyhan insieme alla madre Hatice e il fratello Mehmet decidono di trascorrere le vacanze estive in un villaggio appartenente all’Anatolia centrale, nel quale vive la nonna Ummu, profondamente conservatrice e religiosa. Importante per la sua sopravvivenza in questo luogo lontano anni luce dalla metropoli di Istanbul è la figura della zia che rappresenta la resistenza nei confronti della nonna. Restare in quel luogo, venendo odiata da tutti gli abitanti, ma fermamente convinta delle proprie idee, per Reyhan è la conferma di quanto sia giusto continuare a battersi per questi ideali.
L’adolescente stanca dei discorsi retrogradi che le donne sono solite fare, ogni giorno diventa sempre più insofferente. A cambiare ancora di più il suo temperamento è l’arrivo delle prime mestruazioni il cui momento dalle donne anziane è visto come qualcosa di profondamente negativo. La ragazzina fa di tutto pur di non ammettere di avere il ciclo, per paura che possa essere vittima dei tipici riti religiosi, che le donne del villaggio sono solite fare.
Reyhan nella figura della zia, trova il suo modello di ispirazione, per la ribellione ai valori tradizionali, che sta portando avanti da anni. L’adolescente ha le idee chiare per il suo futuro: vuole studiare, frequentare la grande città, vuole lavorare e non restare imprigionata nel villaggio.
Ad aver presentato il film in concorso di fronte ai giurati della sezione Generator+13 è giunta la regista turca Ümran Safter, la quale ha spiegato che questa storia è stata frutto di una chiacchierata con alcune ragazze che oggi vivono ancora lì. Quel villaggio che sembra appartenere a un’epoca lontana dalla nostra, in realtà è quello di origine proprio della regista, compresa la casa che si vede nel corso del film.
“Ho deciso di girare questo film nel 2020, quando sono tornata nel villaggio. Ho iniziato le riprese nel 2023 e le riprese sono durate tre settimane. È stato difficile girare, perché sono riaffiorati dei ricordi brutti, legati a quando mi trovavo da giovane al villaggio, insieme alla mia famiglia religiosa. Avrei voluto dimenticare, ma a volte ricordare è importante per poter raccontare al pubblico anche storie come questa” ha dichiarato la regista ai juror della sezione Generator+13 del Giffoni Film Festival.
Come ammesso dalla stessa cineasta: “Sono cresciuta in quel villaggio, quella è casa mia. Conosco quei luoghi e parlare di mestruazioni era tabù quando avevo 14-15 anni. Poi 2 o 3 anni fa, sono tornata lì e ho avuto modo di parlare con delle ragazze. E bene, questo stesso argomento è ancora tabù nel villaggio. Alcune ragazze mi hanno detto che per quando comprano gli assorbenti, il farmacista li mette all’interno di buste nere, così da non poterne vedere il contenuto.
Un aneddoto presente nel film, rappresentato in maniera molto forte, è il dialogo che la ragazzina fa con la madre Hatice, in merito all’arrivo delle prime mestruazioni. La regista ha confessato che: “Quando giungono le mestruazioni per la prima volta, la mamma e la nonna, sono solite dare un ceffone sul viso della ragazza di turno”. Una pratica molto discutibile e priva di ogni senso logico. A tal punto la Safter ha anche aggiunto: “Oggi non c’è più questo gesto, utilizzato per punire le ragazze alle quali arriva il ciclo”.
In conclusione, molto interessante è stata la mancata rappresentazione degli uomini in scena – salvo rarissime occasioni – per sottolineare quanto il patriarcato sia presente nella mente e nei comportamenti delle donne.